Memorie di una racchetta

Mi chiamo Artengo e sono una racchetta.

Solitamente quando nasce qualcuno, si mette un fiocco sulla porta, rigorosamente rosa per le femminucce e rigorosamente blu per i maschietti, per chiarire da subito che la distinzione di sesso non prevede daltonismo e che colori come il verde, il giallo, il viola, possono creare confusione nella nursery e in famiglia: “Oddio, un maschio giallo?! Aiuto: una femmina verde?!”, neanche avessero partorito un ramarro.

Oltre al fiocco, di solito si accompagna l’arrivo del nascituro con frasi benauguranti come: “Benvenuto! Finalmente sei arrivato! Il mondo è nelle tue mani! Che la vita ti sorrida sempre!”.

Quando sono nato io, sulla porta del campo da tennis c’era scritto: “Benvenuto, Artengo! La vita è un grande sbattimento di palline!”. Un esordio entusiasmante, non c’è che dire. Quella frase sulla porta più che un augurio era una maledizione: fin da subito, infatti, da quando ero una racchetta in fasce, ho subìto gravi torti presenti in almeno tre articoli della Convenzione di Ginevra. Innanzitutto: lo struttamento minorile.

Eh, sì: il mio esordio è avvenuto tra le mani di due attempati e appesantiti commercialisti che erano convinti di giocare nel All England Lawn Tennis and Croquet Club, ovvero Wimbledon, dimenticando di trovarsi, invece al Tennis Club House Sassari, presso strada vicinale Zinziodda-Li Buttangari, traversa Buddi Buddi. I due, a fasi alterne, mi stringevano tra le mani sventolandomi senza nessun senso logico e con la stessa coordinazione oculo-manuale di un calamaro: un po’ da una parte e un po’ dall’altra, a prendere a schiaffi l’aria come la vecchietta che ad Agosto ha la casa invasa dalle zanzare e cerca di arrostirle al volo con la temutissima Racchetta Assassina.
Che brutta fine ha fatto la Racchetta Assassina. La ricordo da giovane: prima di diventare un’omicida di zanzare era una brava racchetta, e come tutti i serial killer, salutava sempre.

Oltre allo sfruttamento minorile ad opera di commercialisti appesantiti, attempati e scoordinati, ho subìto anche indicibili violenze per mano di pericolosi arrostitori seriali che, in assenza di graticola, usavano il mio corpo per arrostire pancetta, capocollo, zimino e l’immancabile evergreen delle tavole sassaresi: lu zarrettu.

E le mamme! Oh, le mamme! Quando in séguito al boom economico degli anni Duemila si sono evolute e hanno mandato in pensione il famigerato battipanni – noto strumento educativo montessoriano – sono passate al più tecnologico Folletto. Oh, il Folletto: duemila euro di plastica dura che compri per disperazione, per raccogliere tutta la merda che il rappresentante ti ha scaricato sul divano per fare la dimostrazione davanti alle tue vicine di pianerottolo. Il Folletto: tecnologico sì, ma decisamente scomodo da utilizzare negli inseguimenti casalinghi dei figli disobbedienti. Dunque: con che cosa sostituire il montessoriano ma vetusto battipanni? Con la racchetta che tanto il marito – commercialista attempato, appesantito, scoordinato e sicuramente fedifrago – conserva nello sgabuzzino tra le pantofole e la bombola di ricambio. E se la racchetta, cioè io, si rompe infrangendosi sulla spina dorsale del bambino da rieducare, pazienza, tanto il commercialista attempato, appesantito, scoordinato, fedifrago e legnaverde può benissimo ricomprare un altro me nel luogo che più di tutti ci ha reso banali numeri di matricola, esseri senza volto né storia, oggetti omologati e asserviti al potere rinchiusi in quel luogo per noi infame, asettico, gelido, che ha creato mostri che corrono con il broncospasmo, accartocciati come involtini primavera sulle piste ciclabili di Nicola Sanna, sudati come anguille e appesantiti (mai quanto i commercialisti) da strumenti di misurazione che manipolano a loro piacimento per far vedere agli amici quanto hanno corso quella sera, a che velocità, con quale vento contrario, con quali mutande termiche performanti e sopratutto, quanti grammi di tessuto adiposo hanno perso, per poi arrivare a casa e mangiarsi pure il contapassi. Quel luogo di perdizione è, ovviamente, Decathlon: il luogo in cui anche il peggiore dei Commercialisti si sente Federer. Di li pobari.

Lascia un commento