La marmellata di mirtilli

(complice la quarantena, ho disseppellito un racconto che non ricordavo neanche di aver scritto, quasi dieci anni fa)

Io, da quando avevo più o meno sei anni, sono a rischio infarto. Un’infanzia in bilico, la mia. Un’infanzia che passeggiava, come un funambolo, sulla sottile linea che divide la vita dalla morte. Un’infanzia un po’ di merda, a dirla tutta.

Si può usare la parola merda, in un racconto che parla di marmellata, o intervengono i Nas?

Ero e sono a rischio infarto, dicevo. Niente problemi cardiaci, sia chiaro, ché quando hai sei anni l’unico cuore che conosci è quello che ti cresce quando fai il ruttino. A voi non lo dicevano, quando eravate piccoli e digerivate apertamente con un ruttino roboante, “Ops, ti è cresciuto il cuoricino!?” A me lo dicevano, Dicevano questo e tante altre cazzate. Ve l’ho detto, no, che ho avuto un’infanzia di merda?!

Ora arrivano i Nas.

Io, quando avevo sei anni, odiavo la campagna. Ora che ne ho qualcuno in più, una decina in più, una ventina in più, odio ancora la campagna. Non per via degli insetti schifosi che ti succhiano il sangue, che a fine serata sei secca secca come l’uvetta sultanina, che è l’uvetta dei panettoni, quella che di solito è più buona dei canditi, che per me, il settimo segreto di Fatima è: ma se i canditi fanno schifo quasi a tutti, perché continuano a metterli nel panettone?

Il Natale, a casa mia, lo passiamo a sputacchiare tutti i canditi, a raffica. C’è la guerra, a casa mia, a Natale. Altro che festa della pace e della bontà. Partono sputi che è una meraviglia: ci inseguiamo in tutte le stanze, per sputarci addosso i canditi. Perché, mi chiedo: perché tutti questi canditi incastonati nel panettone? La risposta non la so, ma è comunque credibile quanto gli altri sei segreti di Fatima.

Io odio la campagna, la odio più di ogni altra cosa. La odio quasi quanto i politici che hanno fondotinta, capelli posticci, tacco dodici e mano morta. E fosse solo la mano, morta, che a settantaquattro anni dovrebbe essergli morto un po’ tutto.

Io non odio la campagna perché ci sono i grilli che fanno cri cri- cri cri- cri cri e le rane che fanno cra cra – cra cra – cra cra e tante altre bestie che fanno versi vari usando tutte e cinque le vocali. Che poi, lo sapete che le vocali sono sette? Sì, lo so che le maestre vi hanno fatto due balle così per cinque anni, dicendovi che le vocali sono cinque.
Sì, lo so che il cavallo di battaglia dei vostri primi anni di vita è stato cantare a squarciagola Biea bie babè biebi babebi bieò baebubò bieobu babebibobu usando tutte e cinque le vocali. Che poi, se avete cantato a squarciagola bieabiebabebieobabebubobioebubiabebibobu, anche voi avete avuto un’infanzia un po’ di merda. Mi sento meno sfigata. Molto meno sfigata. E comunque, le vocali sono sette. Sì, sono sette: perché oltre a quelle che conoscete, ce ne sono anche una aperta e una chiusa. Una, talmente aperta da essere quasi spalancata: EEEE. E una chiusa ma talmente chiusa da essere quasi esclusiva, per pochi: OOOOOO.

Io odio la campagna perché, tra le altre cose, io non ce l’ho, il lettone di Putin. C’ho il letto a castello, c’ho. Che da piccola, quello stronzo di mio fratello mi nascondeva sempre la scaletta di ferro e per scendere dal letto di su, mi dovevo lanciare nel vuoto. Che se sono così bassa, è perché almeno cinque centimetri di ossa mi sono rientrati per il colpo e ce li ho qua, incastrati dentro i polpacci. Tipo molla. Diciamo che sono retrattile.

Io la campagna la odio anche per gli insetti, sì, soprattutto per gli insetti. Le zanzare, soprattutto, che ti pungono anche se ti presenti in campagna indossando lo scafandro. Anche con la maglia di ferro dei cavalieri della tavola rotonda. Loro, un buco in cui infilare il pungiglione, state certi che lo trovano. Che poi, le zanzare hanno il pungiglione?
O hanno i denti?
Perché si dice mi ha punto una zanzara, ma anche una zanzara mi ha dato un morso. E allora io, la zanzara, se chiudo gli occhi me la immagino con una testolina piccola piccola, più piccola della capocchia di uno spillo. E con dei denti enormi. Denti aguzzi da Conte Dracula. Denti di giù e di su, grandi e appuntiti come stallatiti e stallagmiti. Che non si limitano semplicemente a bucarti. No, ti trivellano. E dalla pelle sgorgano zampilli di sangue.

Io la campagna la odio soprattutto per i mirtilli.
Io amo i mirtilli, ma odio la campagna.
La marmellata di mirtilli è il mio pane quotidiano.
Io, di solito, spalmo il panino sulla marmellata e non il contrario.
Ma i mirtilli, i mirtilli, mi hanno rovinato l’infanzia.
Io, se sono così come sono, è per colpa dei mirtilli.

Ho perso generazioni e generazioni di parenti, io, per colpa dei mirtilli. E li ho persi tutti durante l’infanzia.
Un’infanzia di merda, ma che sapeva di mirtillo.
Uno alla volta, padre, zii, fratelli e nonni, mi chiedevano:
Vuoi un mirtillo, eh?! Lo vuoi, un mirtillo, Angelina?”.
E io, che a sei, sette, otto anni non sapevo ancora dire di no, il mirtillo sì che lo volevo.
E’ un po’ pericoloso, raccoglierlo”, mi dicevano, “ma se lo vuoi, andiamo a prendertelo”.

E così, con armi da taglio e cestino, uno ad uno i miei parenti maschi si avviavano verso la campagna, come cavalieri che partono per la battaglia campestre, con la forbice da potare in mano. Tipo Cappuccetto Rosso travestito da Freddie Kruegher, quello brutto brutto di Nightmare.
Che se io sono così, è anche per colpa di Nightmare e delle sue unghie lunghe e affilate.
Che ancora oggi appena mi si avvicinano le amiche con le unghie finte, gliele spezzo senza alcuna pietà.

I miei parenti maschi, uno alla volta, andavano verso l’orto, con passo pesante tipo John Wayne in Sentieri Selvaggi. O molto più semplicemente col passo di uno che si è cagato addosso. Armati fino ai denti, sforbiciavano a destra e sinistra, su e giù, tanto da lasciare l’albero nudo a metà. Poi il guerriero di turno tornava da me, tronfio, con il sorriso di chi dice ce l’ho fatta, avevi qualche dubbio? E mi porgeva il cestino con la mano sinistra. Un cestino di vimini che traboccava di frutti rosso porpora: polposi, morbidosi, gustosi.

Sul mio visetto di bambina di sei, sette, otto anni, si dipingeva un sorriso beato e anche un po’ beota. “I mirtilli…”, dicevo, sospirando. Poi allungavo la mano per afferrarne un pugno.
Prima un bacino”, mi diceva il parente di turno e inchinandosi, mi porgeva la guancia. Rossa.
Grondante di sangue.
Stillante gocce di globuli rossi.
Te l’avevo detto che era pericoloso”, mi diceva l’eroe di turno, dopo aver visto la mia espressione atterrita. “Ma se ti piacciono, te ne prendo altri”.
Io indietreggiavo, lacrimante: con la bocca spalancata che chiudevo solo ad intervalli singhiozzanti. Tremavo e stringevo forte il pugno, spappolando i frutti rossi e creando una pozza cremisi ai miei piedi.

Io, da quando avevo più o meno sei anni, sono a rischio infarto, è vero. Io, da quando avevo più o meno sei anni, ho rischiato più volte di restarci secca, davanti a quei litri di succo rosso sangue. Io, è vero, da quando avevo sei sette otto anni non ho mai più mangiato un mirtillo. Ma loro, gli eroici maschi della mia famiglia, a furia di fare scherzi sanguinolenti coi mirtilli, ora hanno tutti il diabete.

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